Vincenzo Scamozzi (Vicenza, 2 settembre 1548 – Venezia, 7 agosto 1616) è stato un architetto e scenografo italiano rinascimentale della Repubblica Veneta, operante nel tardo Cinquecento e nel primo Seicento a Vicenza e nell’area veneziana, dove fu la figura più importante tra Andrea Palladio e Baldassare Longhena.

Rudolf Wittkower lo ha definito “il padre intellettuale del neoclassicismo”

Scamozzi, colto e raffinato figlio di un costruttore edile, vive in modo agiato dedicandosi agli studi e passando diverso tempo a Roma per studiare da vicino gli edifici antichi.
Buon conoscitore del latino, accumula un sapere che travalica di gran lunga i limiti delle discipline inerenti l’architettura, spazia nei campi più diversi, dai classici latini e greci ai più diffusi titoli della “moderna” divulgazione.
Il padre lo aveva introdotto a meticolosa lettura delle Regole del Serlio, testo destinato a rimanergli prediletto. Soprattutto doveva averlo colpito l’insistere sul metodo tramite il quale giungere alla corretta definizione di quelle “forme” che potremmo chiamare “elementi lessicali” dell’architettura: non la supina accoglienza di dati, pur consacrati dal tempo, dalla tradizione o da prestigiosi autori, bensì esame accurato di tutte le opinioni per arrivare, aiutando la ragione, ad attingere quella più vera.
Le ampie conoscenze di Scamozzi sono confluite nel suo trattato “L’Idea di Architettura Universale” che, tradotto in varie lingue e diffuso in Europa e poi in America, lo fece diventare uno dei più influenti teorici del suo tempo.
Andrea Palladio appare nel Trattato scamozziano coinvolto con onore: il suo nome chiude la lunga serie degli “intendenti” dell’architettura ”dell’età migliore” a partire dal Cinquecento e con loro a buon diritto condivide il merito d’aver “lasciato opere piene d’invenzioni e disegni e arricchite d’ordini pieni di grazia e ridotte a finimenti con molta perfezione d’architettura”.
Palladio viene citato nella schiera dei più quotati “fra tanti”, uomini tutti “assai stimati”, che da Vitruvio in poi hanno scritto d’architettura.
Pur stimandolo, Scamozzi differisce da Palladio, per quest’ultimo, ad esempio, i cortili possono essere o dei vuoti di risulta rispetto al disegno del costruito – vuoti le cui deficienze sono risolte con alcune geniali invenzioni, come il loggiato del cortile di Montano Barbarano – oppure elementi di mero collegamento tra corpi edilizi distinti, come nel palazzo di Iseppo Porto.
Per Scamozzi, invece, il cortile è il baricentro fisico e concettuale dell’edificio (come in Villa Molin alla Mandria), elemento costantemente quadrilatero regolare intorno al quale si organizza la planimetria, assorbendo nelle parti circostanti le eventuali irregolarità del sito.
La possibilità di godere del paesaggio dall’interno dell’edificio è una delle caratteristiche peculiari delle ville dello Scamozzi. Mentre le logge palladiane sono ambienti di transito obbligato, nelle ville di Scamozzi si prevedono logge e altri ambienti isolati dai percorsi di accesso, ma finalizzati unicamente a Belvedere: si pensi alla loggia antistante Villa Molin o quella retrostante Villa Contarini a Loreggia.

Nel maggio 1580 Scamozzi arriva a Venezia dopo il soggiorno di studio a Roma, introdottovi da dimestichezza con i Pisani, committenti della “Rocca” , con Giovanni Cornaro e Giacomo Contarini.
Tra i suoi estimatori ci sono i Cornaro, Marcantonio Barbaro, Jacopo e Federico Contarini, Pietro Duodo, esponenti delle famiglie Grimani, Foscari, Donà, il doge Da Ponte e vari altri.
Tra le opere principali realizzate a Venezia ci sono palazzo Contarini dagli Scrigni (1606-1609), la lunghissima facciata delle Procuratie Nuove su piazza San Marco, la casa dei Procuratori, la chiesa della Celestia, al monumento per il Doge Nicolò da Ponte alla Carità, “Invenzioni et modelli” per il ponte di Rialto, il Museo dell’antisala della Libreria, la chiesa di S. Nicolò da Tolentino, l’apparato scenografico per la dogaressa Morosini Grimani, Chiesa e Ospedale di San Lazzaro dei Mendicanti.

L’attività di architetto teatrale e di scenografo non fu secondaria nella vicenda artistica di Scamozzi.
La stesura, entro il 1575 e il costante aggiornamento del “Trattato sulla Prospettiva”, l’apparato impalcato per le vie di Vicenza in onore di Maria D’Austria, l’intervento al Teatro Olimpico di Vicenza e l’ideazione del teatro di Sabbioneta per i Gonzaga, il teatro del mondo per l’ingresso a palazzo Ducale della Dogaressa Morosina Morosini Grimani, sono le tappe salienti di tale attività.
L’accademico teatro Olimpico di Vicenza e il teatro ducale di Sabbioneta, assieme alle esperienze analoghe alla corte medicea, estense e gonzaghesca, sono magistrali esempi dell’autocelebrazione iconologica delle nobili famiglie regnanti o delle città e segnano il passaggio dal luogo all’edificio teatrale.

All’interno trionfa l’archetipica idea del cortile cinquecentesco adibito a luogo teatrale, che tanta importanza avrà nella genesi del teatro barocco: portici con ritratti di divinità mitologiche e una balaustra da cui si affacciano spettatori dipinti, partecipi e curiosi, sotto un cielo stellato.
Due archi trionfali inquadrano vedute di Roma, Sabbioneta paragonata all’Urbe, la metafora mitologica del suo principe, che viene ritratto tra i busti dei Cesari.

Le ville rimangono tra le più importanti testimonianze della sua opera, tra queste, oltre a villa Molin, gli esempi più celebri sono La Rocca Pisana a Lonigo, Villa Duodo, Monselice, Villa Nani Mocenigo a Canda (Rovigo), articolati complessi architettonici costituiti da fabbriche e attigui spazi a cielo aperto, che dovevano elogiare la condizione sociale e disponibilità economica del proprietario, abbinando sempre “comodità” e “magnificenza”.

Per questo Scamozzi sceglie sempre luoghi dove si possa godere di un diretto rapporto con il contesto fatto di giardini e altri edifici di servizio e che siano di prestigio per il committente, leggermente elevate e sempre a contatto con viste ampie che inquadrino i colli o i fiumi.

“Friday the first of August 1614 I spoake with Scamozo in this matter and he hath resolved me in this in the manner of voltes”

Inigo Jones, note in his copy of the Quattro Libri, Book I, 54